CARLA
ARCOLAO
Le malte con gesso e/o calce
e polvere di marmo per intonaci e stucchi
in: Le ricette del restauro, Venezia,
Marsilio 1998, pp. 47-59.
Gli impasti costitutivi dello stucco
per decorazioni plastiche ed intonaci, desunti dalle fonti, possono essere
ricondotti a quattro impasti principali:
1) impasto a base di gesso cotto,
acqua con eventuale aggiunta di additivi (leganti organici e cariche di
vario tipo);
2) impasto a base di calce, polvere
di marmo (o di travertino), più raramente sabbia;
3) impasto a base di calce, gesso
cotto (con o senza inerti) con eventuale aggiunta di additivi
4) impasto a base di gesso cotto
(e più raramente gesso crudo), acqua e leganti proteici (colla animale).
È necessario osservare che
il gesso di cui parlano le fonti, anche se non specificato, è da
ritenersi nella forma emidrata (gesso cotto o gesso per modellatori), ottenuto
dalla cottura a 128° circa del solfato di calcio biidrato (gesso crudo).
Dalla cottura del gesso crudo dipendono
le caratteristiche dell'impasto, e proprio in questa fase, per molti autori
tra cui ad esempio Rondelet, erano da ricercarsi i presunti segreti degli
stuccatori più abili. Infatti, variando opportunamente la temperatura
e la durata della cottura, si poteva ottenere l'eliminazione totale o parziale
dell'acqua di cristallizzazione contenuta nel minerale, creando dei gessi
in grado di riassorbire quantità di acqua diverse in fase di lavorazione,
e quindi composti con una presa più lenta o più rapida, e
con una resistenza meccanica diversa. Per la realizzazione di lavori particolarmente
raffinati si sceglievano le pietre migliori e più bianche. Secondo
Jean Rondelet, era necessario che lo stesso stuccatore facesse cuocere
i pezzi di gesso giunti in cantiere dalla cava, per controllarne costantemente
il grado di cottura.
Per la dosatura degli ingredienti,
soprattutto per la miscelazione con l'acqua, generalmente le fonti raccomandano
di affidarsi all'esperienza degli stuccatori, soprattutto dei garzoni che
nel cantiere avevano il compito di preparare gli impasti, ed erano quindi
in grado di riconoscere il giusto "grado" di fluidità dello stucco
Nel caso di impasti a base solo di gesso generalmente si consigliava un
rapporto in volume di 1:1. Nel caso invece di impasti contenenti leganti
diversi, la proporzione degli ingredienti variava a seconda della successione
degli strati. Per gli strati di preparazione era maggiore la quantità
di gesso rispetto a quella della calce e della sabbia, mentre per gli strati
di finitura, nei quali molto spesso si escludeva l'uso del gesso,si
consigliavano impasti di calce e polvere di marmo in proporzioni uguali.
a) Decorazioni plastiche.
L'elemento che maggiormente caratterizza
le ricette riguardanti gli impasti per decorazioni plastiche è la
ricerca di additivi e procedimenti in grado di accelerare la presa e, nello
stesso tempo, ritardare l'indurimento dei composti influendo su tali processi
si volevano ottenere malte modellabili a lungo, ma che facessero presa
con una velocità sufficiente per non cadere o deformarsi, una volta
poste in opera, sotto il loro stesso peso.
Particolarmente interessanti sono,
a questo proposito, gli ingredienti riportati da Francesco di Giorgio Martini
e da Pietro Cataneo. Entrambi parlano di un composto a base di gesso cotto,
calce di marmo (o polvere dello stesso), polvere di pomice e zolfo, da
stemperare in un decotto di bucce di olmo, fieno e cime di malva (1), infusione
che presumibilmente per il suo abbondante contenuto di amido,
tannino (2) e zucchero, e quindi per il suo potere irrigidente e astringente,
avrebbe incrementato la lavorabilità dell'impasto sia nella fase
di indurimento sia una volta asciutto (3). Tale caratteristica era
probabilmente enfatizzata dalla presenza della polvere di pietra pomice.
La pomice, infatti, ha una struttura spugnosa globulare a cavità
chiuse che trattengono a lungo l'umidità, permettendo alla malta
di asciugarsi più lentamente.
Sempre allo scopo di ritardare il
tempo di presa e rendere il composto più adesivo e resistente, molti
autori consigliano impasti a base di gesso cotto e colle animali.
Nei composti a base di solfato di calcio emidrato, infatti, l'uso di leganti
proteici ha la funzione di renderlo malleabile più a lungo (4).
La colla infatti inibisce la formazione dei germi di cristallizzazione
e diminuisce la solubilità del gesso, permettendo di ridurre l'acqua
d'impasto, aumenta anche la durezza del prodotto finale. Francesco Griselini,
a questo scopo, raccomandava di unire al gesso acqua calda contenente colla
di
Fiandra (5) e colla di pesce (6)
(o colla arabica).
Un altro concetto spesso ribadito
dalle fonti è la difficoltà di conservazione dei manufatti
contenenti gesso, in
particolare la loro scarsa resistenza
all'umidità, che si cercava di incrementare con l'aggiunta nell'impasto
di polvere di mattone pesto o pozzolana, e con applicazioni sul manufatto
asciutto di latte di calce, latte, caseinato di calcio (7), oli e acqua
di colla, tutte sostanze in grado di collegare più tenacemente i
cristalli del solfato di calcio.
Per le decorazioni esterne in generale
sono sconsigliati gli impasti a base di gesso, che vengono sostituiti da
quelli a base di calce e sabbia di cui si incrementava l'idraulicità
con ingredienti particolari, come ad esempio tegole peste, "scorie di ferro
e tartaro di vino" (8) (Rondelet).b) Intonaci comuni. Per la realizzazione
degli intonaci con malte a base di gesso e/o calce e
polvere di marmo si utilizzavano
sostanzialmente gli stessi impasti utilizzati per le decorazioni plastiche,
la differenza non era negli ingredienti, ma nella maggiore o minore liquidità
del composto.
Intonaci con gesso. Prima della fine
del Settecento, in Italia, gli intonaci a base di gesso non sembrano molto
diffusi, circostanza che sembra confermata dal fatto che la maggior parte
delle indicazioni riportate nei manuali italiani del periodo venivano riprese
direttamente dai manuali francesi, o ricavate dalle traduzioni di questi
ultimi in italiano.
Antonio Cantalupi, che ricava le
proprie indicazioni dal testo di Claudel e Laroque, consiglia di impiegare
intonaci a base di gesso stemperato nell'acqua per realizzare rinzaffi
aventi la funzione di rendere la superficie muraria regolare prima
di applicarvi l'arricciatura, anch'essa in malta di gesso. Sempre
lo stesso autore descrive un intonaco per superfici lignee chiamato "lattata",
realizzato con gesso diluito in molta acqua e applicato con la cazzuola.
Intonaci con polvere di marmo. La
polvere di marmo, essendo costituita prevalentemente da carbonato di calce,
svolge negli intonaci realizzati con malta di calce due funzioni: rallentare
la carbonatazione, e di conseguenza i tempi di presa ed indurimento dell'impasto,
migliorandone la stabilità, e aumentare la naturale plasticità
dell'impasto.
Vitruvio consigliava la stesura
di tre strati di malta contenente calce e polvere di marmo, a completamento
della superficie muraria. Leon Battista Alberti, invece, prescrive la malta
con polvere di marmo come ultimo strato che doveva essere battuto e lisciato
(9) con la cazzuola.In generale tutte le ricette per l'intonaco con polvere
di marmo prevedevano, nella dosatura degli
ingredienti, un aumento della quantità
di legante nello strato più esterno, probabilmente per questo motivo
i rivestimenti realizzati con tale tecnica presentano una crettatura della
superficie esterna.
c) Intonaci a finto marmo.
La colorazione dello stucco mediante
pigmenti costituisce l'elemento caratterizzante della tecnica dei rivestimenti
a imitazione del marmo. La colorazione poteva avvenire nell'impasto oppure
con l'applicazione dei colori sulla superficie già realizzata.
Le fonti esaminate dedicano grande
spazio soprattutto alla descrizione degli stucchi coloranti nella fase
di amalgama. L'impasto per tale tipo di stucchi era formato da scagliola
(chiamata anche mischia), ossia un impasto di gesso cotto con una soluzione
di colla animale, mescolato a pigmenti e ad eventuali additivi. Le colle
consigliate dalle fonti sono generalmente due: la colla di Fiandra e la
colla di pesce. Per entrambe si raccomanda di non usarle né troppo
forti né troppo deboli, perché nel primo caso avrebbero allontanato
troppo le particelle del gesso impedendo la formazione di un corpo compatto,
e nel secondo non le "riunisce abbastanza". In ogni caso è sempre
l'esperienza o, come afferma Rondelet, "l'uso quello che fa conoscere il
grado che conviene ad ogni specie di gesso"; e in ciò consisterebbe,
secondo l'Autore, il preteso segreto di ogni stuccatore.
d) Intonaci a "stucco lucido". Gli
impasti per gli intonaci a "stucco lucido" sono gli stessi dello stucco
a imitazione del marmo e del marmorino, cambiano soltanto le metodologie
esecutive e alcune finiture superficiali atte a rendere la lucentezza del
marmo oltre che imitarne le venature.
Lavorazione degli impasti
Le caratteristiche tecniche e in
particolare la velocità di indurimento degli impasti a base di gesso,
a parità di altri fattori, vengono ricondotte dalle fonti al grado
di finezza del materiale.
Dopo la fase di cottura, quella
considerata più importante, era la fase di macinazione e setacciatura
del gesso, operata con strumenti diversi a seconda della granulometria
desiderata. Generalmente si consigliava l'utilizzo di una lastra di marmo
di un mortaio di metallo per la macinazione e di un setaccio di seta per
ottenere, come afferma Vincenzo Scamozzi, una polvere dalla consistenza
simile a quella della farina.
La lavorazione degli impasti a base
di gesso doveva essere breve e molto rapida, perché una volta induriti
divenivano inutilizzabili. L'indicazione più dettagliata, a questo
proposito, è fornita dal Rondelet, il quale consiglia di eseguire
l'impastodella malta di calce e sabbia fina con l'acqua su di una "tavoletta",
una specie di vassoio che lo stuccatore doveva tenere in mano. Su questa
tavoletta l'operatore doveva disporre la malta come "una specie di bacino"
nel quale seminare il gesso, in
quantità tale da assorbire
tutta l'acqua eccedente e ottenere una pasta uniforme immediatamente utilizzabile.
Le altre indicazioni prescrivono l'uso di "bacini" o "mastelli" da porsi
vicino all'operatore, nei quali aggiungere alla malta già preparata
il gesso necessario, oppure contenenti l'acqua in cui seminarlo a poco
a poco. L'impasto doveva essere mescolato fino a quando, preso con la cazzuola,
vi rimaneva attaccato per uno strato, come afferma Antonio Cantalupi di
almeno due millimetri.
a) Intonaci a finto marmo colorati
in pasta. Le indicazioni per la lavorazione degli impasti a imitazione
del marmo colorati"in pasta" sono sostanzialmente d due tipi. Il
primo, descritto tra gli altri da Francesco Griselini, consisteva nello
stemperare i colori (sotto forma di pigmenti minerali) del marmo che si
voleva imitare in alcuni vasi di vetro, contenenti una soluzione di acqua
e colla calda alla quale si aggiungeva un quantità di gesso sufficiente
a formare un impasto "consistente". Con questo impasto si realizzavano
delle "focacce" (ovvero pallottole schiacciate che venivano disposte una
sopra all'altra, mettendone una quantità maggiore di quelle del
colore dominante nel marmo.
Il secondo procedimento è
descritto in modo molto dettagliato da Jean Rondelet, che riporta le indicazioni
dei fratelli Albertolli, e dal Breyman. Tale procedimento prevedeva la
formazione di piccoli impasti con la polvere di gesso finemente macinata
e setacciata, e la colla di Fiandra diluita, a cui si aggiungevano pigmenti
per affresco del colore del marmo da imitare. Con questa pasta colorata
si formavano delle "pallottole", più grosse quelle del colore di
fondo e più piccole le altre,
che si ordinavano per tonalità
di colore. Alcune di queste pallottole venivano inoltre macchiate con la
"salsa", un impasto formato ancora da gesso e acqua di colla, che serviva
per ottenere delle "striature" (più chiare o più scure) simili
alle venature del marmo.
Tecniche di applicazione e finitura
Le decorazioni plastiche in stucco
potevano essere eseguite in opera o fuori opera, oppure avvalersi di entrambe
le tecniche contemporaneamente.Lo stucco realizzato in opera era il risultato
di operazioni di modellazione dell'impasto fresco eseguite direttamente
sul manufatto. Lo stucco realizzato fuori opera, invece, poteva essere
ottenuto in due modi differenti. Il primo prevedeva la realizzazione delle
singole parti, non direttamente sul supporto murario, ma sul banco del
cantiere.
Mentre il secondo si avvaleva di
stampi che permettevano la realizzazione delle parti di una decorazione
anche fuori dal cantiere, tramite la colatura dello stucco in apposite
forme. La differenza dei due metodi denunciata dalle fonti è la
rapidità ed economicità delle decorazioni prodotte con il
secondo sistema e nella abilità richiesta, invece, per quelli
realizzati con ilprimo.
a) Decorazioni plastiche eseguite
in opera
Armature. Data la particolare consistenza
degli impasti per decorazioni plastiche, duttili ma dalla presa non istantanea,durante
la loro applicazione poteva accadere che si deformassero o aderissero imperfettamente
al supporto su cui dovevanoessere applicati, evenienza tanto più
probabile quanto maggiore era lo spessore di malta utilizzato. Per spessori
ridotti si riteneva sufficiente la semplice aggiunta di cariche organiche
costituite da fibre vegetali (generalmente paglia triturata) o animali
(peli o crine), oppure leganti proteici come le colle di pesce o di ritagli
di pelle.
Le fibre vegetali, in particolare,
oltre a fornire uno scheletro di supporto erano in grado di ritardare l'indurimento
perché, assorbendo acqua in fase di impasto, mantengano il composto
più a lungo umido. Questa osservazione è confermata da una
indicazione riportata da Leon Battista Alberti che prevedeva l'aggiunta
di "minutissimi pezzi di cordami stravecchi" per ottenere un intonaco in
grado di asciugarsi molto lentamente. Per rilievi molto aggettanti come
capitelli, festoni e modanature, si rendeva invece necessaria la messa
in opera di vere eproprie armature di sostegno. Bisognava cioè predisporre
sul supporto murario delle strutture in aggetto, realizzate con mattoni
o con altri materiali, che seguissero l'andamento del rilievo consentendo
di diminuire la malta necessaria e quindi lo spessore dello stucco. Per
la realizzazione di cornici e modanature, intorno a volte, porte e finestre,
le fonti riportano due tecniche di realizzazione delle armature di
supporto:
1) nel primo caso la struttura di
appoggio era realizzata modellando direttamente la superficie muraria,
se questa era costituita di pietre "dolci" (tufo o mattoni), come indicato
da Giorgio Vasari.
2) nel secondo caso, invece, si
ricorreva alla costruzione di uno scheletro mattoni o di tufo, o di altra
pietra facilmentelavorabile, che veniva modellata murata durante la realizzazione
del supporto murario, come descritto da P. Cataneo e da Francesco De Cesare.
Quest'ultimo in particolare afferma che per i "grandi sporti" si utilizzavano
dei lunghi prismi che i muratori chiamavano "spaccatoni" o anche dei pezzi
di "lastrico", cioè dei pezzi di pavimentazioni tagliati e inseriti
nella
muratura; questa variante non compare
in altri testi ed è quindi da ritenere una tecnica caratteristica
dell'area napoletana da cui il testo proviene.
Armature per decorazioni complesse.
Quando però le decorazioni in stucco erano formalmente più
complesse, come nel caso di capitelli, trofei o figure modellate ad altorilievo,
si fissavano alla parete chiodi e grappe più o meno grandi in proporzione
a quanto le decorazioni dovevano sporgere dal supporto murario, e tra questi
si muravano dei piccoli pezzi di mattone o tufo, come indicano Vasari e
Cataneo, e come riporta, tra gli altri, nell'ottocento Giovanni Curioni,
a testimonianza di una tecnica rimasta per molti secoli sostanzialmente
immutata.
Modellazione delle cornici Sul supporto,
adeguatamente preparato, l'impasto veniva steso in più strati, come
descritto da Pirro Ligorio, ruvido e "granelloso" il primo, sul quale veniva
abbozzata con spatole di varia misura la forma, più fine e
malleabile il secondo per consentire una modellazione precisa e accurata.
Questa modellazione avveniva quando l'impasto era ancora "fresco", con
l'impiego di sagome che riproducevano la cornice in negativo. In particolare,
secondo Rondelet, di sagome o "calibri" ne occorrevano due: uno più
piccolo per l'abbozzo, e uno delle dimensioni reali della decorazione
finita.
Nelle fonti ottocentesche i modani
in legno vengono descritti e rappresentati muniti di una sottile lastra
di ferro tagliata a seguire le curve della modanatura, per ottenere
delle superfici più nette. Si suggerisce inoltre di utilizzare queste
sagome con il supporto di una piccola impalcatura composta da un carrello,
generalmente in legno, che funzionava da sostegno per la lamina e da guida
per l'operatore. Per evitare ogni minima oscillazione e mantenere la forma
perpendicolare alla superficie, questo carrello era tenuto in posizione
da guide di legno (o staggie, come le definisce il Breyman) fissate alla
parete.
b) Decorazioni plastiche eseguite
fuori opera
Nei casi in cui non si potevano
usare le sagome nel modo descritto, G.A. Breyman consiglia di ricorrere
alla realizzazione delle cornici fuori opera, modellandole in lunghi pezzi
continui sul banco e applicandole alla parete con una malta uguale a quella
di cui erano composte.
Lo stucco fuori opera poteva essere
realizzato anche con stampi che riproducevano la decorazione in negativo.
Questi stampi potevano essere in gesso o in legno e più raramente
in terra cotta. Solo Cennino Cennini parla di uno stampo molto particolare,
realizzato con una lastra di stagno "improntata", con un martello di salice,
su di un modello in pietra ricoperto con lardo e sugna e successivamente
riempito con un impasto di gesso e colla.
c) Decorazioni plastiche eseguite
in opera con stampi
A metà tra la realizzazione
in opera e quella fuori opera si colloca la tecnica descritta da Pietro
Cataneo, Giorgio Vasari e Antonio Cantalupi. Le ricette riportate da Pietro
Cataneo e alcuni secoli dopo da Antonio Cantalupi si riferiscono a una
modellazione dello stucco realizzata tramite forme ottenute da essenze
particolarmente dure (pero, melo o bosso), intagliate in negativo,
cosparse con polvere di marmo e applicate sullo stucco ancora plastico.
Battendole con un martello, queste
matrici davano all'impasto la forma
voluta.
La tecnica descritta da Giorgio
Vasari e adottata, secondo l'Autore, da Donato Bramante nella realizzazione
delle decorazioni della basilica di San Pietro a Roma prevedeva la realizzazione
delle decorazioni avvalendosi di grandi forme in terracotta. In queste
forme, assicurate alle impalcature tramite armature in legno, veniva colata
la malta di calce. Le decorazioni, quindi, venivano realizzate contemporaneamente
al manufatto, ed in particolare alle volte, ma non richiedevano la
modellazione manuale di ogni singolo pezzo. Finitura superficiale, coloritura
e doratura Una volta asciutte, le decorazioni venivano rifinite a secco
mediante l'uso di raschiatoi, pezze di lino e pietra pomice. Molto interessanti
sono, a questo proposito, le indicazioni riportate da Francesco Griselini
per rifinire una decorazione realizzata con un impasto di gesso e colla
tramite un lungo processo di pulitura con pietre di consistenza diversa.
La prima pulitura avveniva con una pietra dalla grana più sottile
della selce e, in mancanza di questa, con pietra pomice. Terminata questa
prima fase, si proseguiva la rifinitura con delle pezze di lino bagnate,
su cui si applicava come abrasivo della creta o della polvere di una pietra
bianca di origine calcarea, chiamata Tripoli, oppure una polvere di legno
di salice carbonizzato. Infine, per lucidare l'opera terminata, suggeriva
di sfregarla con un pezzo di cappello, quindi presumibilmente feltro, imbevuto
di olio.
Nel testo curato da Raffaele Pareto,
in particolare, si indica come olio da utilizzare quello d'oliva; questa
indicazione sembrerebbe anomala, in quanto l'olio d'oliva non è
un olio siccativo e quindi non si asciuga mai, ma non si può
escludere che fosse consigliato proprio per l'effetto "unto" e lucido che
conferiva alle opere.
Molto spesso, oltre alla semplice
finitura atta a conferire allo stucco un aspetto liscio e molto uniforme,
si consigliava di rifinire le decorazioni, quando erano quasi completamente
asciutte, levigandole in alcune parti più che in altre per creare
zone con una diversa capacità di riflessione della luce e, quindi,
un apparente diversa tonalità di bianco.
Le decorazioni a stucco potevano,
inoltre, essere colorate e dorate. Giorgio Vasari descrive (10) le grottesche
come decorazioni in parte dipinte e in parte a rilievo che potevano essere
colorate sia al momento dell'impasto sia dopo il loro indurimento, con
colori ad acquerello o ad affresco.
Per la doratura, invece, si utilizzavano
sottili lamine di oro battuto. La superficie veniva preparata con la stesura
del bolo, che poteva essere rosso, giallo o verde a seconda del risultato
che si voleva ottenere, e quindi ricoperta con foglie d'oro.
c) Intonaci comuni La stesura dell'intonaco
con gesso richiedeva una notevole abilità da parte dell'operatore,
che doveva applicare con molta prontezza un composto piuttosto liquido
e vischioso, in modo uniforme e senza farlo cadere a terra.
Per eseguire il rinzaffo in gesso,
se il muro era nuovo il muratore non aveva che da bagnare la superficie
su cui applicarlo; se si trattava invece di una vecchia muratura, doveva
prima togliere l'intonaco esistente e poi ripulire perfettamente la superficie.
Preparato l'impasto della consistenza
voluta (generalmente per gli intonaci le fonti raccomandano composti non
troppo densi), l'operatore gettava con la cazzuola alcune porzioni di malta
sulla parete e ne eseguiva lo spianamento facendo scorrere il lato tagliente
della stessa "leggermente", per rendere la superficie scabra e permettere
una migliore
aderenza degli strati successivi.
Con le malte di gesso si realizzavano
anche, come afferma Antonio Cantalupi, due tipi di arricciature: una semplice,
applicata direttamente sulla muratura, ed una destinata a coprire il rinzaffo.
L'applicazione avveniva in modo
analogo. L'operatore doveva innanzi tutto assicurarsi che il rinzaffo fosse
ben spianato e privo di irregolarità passandovi sopra il lato "dentato"
dello sparviere. Terminata questa fase preliminare, applicava uno
strato di malta facendo scorrere lo sparviere in tutte le direzioni. Gli
strati
successivi venivano applicati in fasce verticali ed orizzontali fino all'esaurimento
della malta. Ultimata la stesura, l'operatore ripassava a secco, prima
con il lato dentato e poi con quello tagliente dello stesso strumento,
tutto l'intonaco, per lisciare e raddrizzare la superficie. Le fonti
raccomandano, infine, un metodo per l'applicazione dell'intonaco a base
di gesso e acqua molto liquido sulle pareti in legno. Questo procedimento
prevedeva l'uso di una piccola scopa formata da ramoscelli essiccati. Antonio
Cantalupi specifica di utilizzare ramoscelli di betulla legati intorno
a un bastone. Applicato in questo modo, il latte di gesso formava
piccole gocce, che indurendo creavano
una superficie ruvida su cui l'aderenza del successivo strato di intonaco
era molto facilitata.
c) Intonaci a finto marmo colorati
in pasta L'applicazione dello stucco a finto marmo colorato in Pasta poteva
avvenire in due modi. Secondo le indicazioni del Rondelet, si prendeva
un poco di ciascun colore preparato, si scioglieva nell'acqua e con
questa si impastava il gesso fresco, quindi si applicava il tutto sulla
superficie da intonacare a "finto marmo".
Per il Breyman, invece, si doveva
stendere prima uno strato di malta piuttosto grezzo, ottenuto impastando
gesso, sabbia fine e acqua di colla. Asciugato completamente questo fondo,
si univano insieme le "pallottole" colorate e "venate". Da questo impasto
colorato venivano tagliati dei pezzi che, immersi velocemente nell'acqua,
venivano applicati sfregando con la cazzuola inumidita sullo strato
di fondo.
Dopo la stesura degli impasti colorati
con spatole e cazzuole, si passava alla finitura a secco. Essa avveniva
in modo simile a quella descritta per le decorazioni plastiche, cioè
attraverso lo sfregamento con pietre e polveri di consistenza diversa.
A differenza di questa, però, la pulitura e lucidatura del finto
marmo prevedeva un numero maggiore di operazioni, che possiamo sinteticamente
suddividere in quattro fasi:
1) una prima fase di lisciatura con
pialletti e appianatoi per eliminare le maggiori ineguaglianze;
2) una seconda fase di lisciatura
grossolana con pietre leggermente abrasive, come la pietra pomice o la
pietra arenaria;
3) una terza fase di lucidatura
con polveri molto fini, generalmente con la polvere di Tripoli, a cui si
poteva sostituire nei punti più difficili come cornici, nicchie
ecc., una raspella (probabilmente una piccola scopa), da inumidirsi prima
dellíuso;
4) e infine una quarta fase, ancora
di lucidatura, che poteva essere realizzata in due modi. Il primo consisteva
nella stesura a pennello di uno strato di acqua e sapone seguita da un'altra
di solo olio di lino, applicato molto velocemente con un pezzo di
feltro. Il secondo, invece, prevedeva una prima stesura di olio di lino
e una successiva di un composto di cera e olio di trementina, applicati
con un panno di lana o di seta.
La fase nella quale si riscontrano
alcune differenze è quella relativa alla pulitura e lucidatura con
le varie pietre, soprattutto in relazione al tipo di pietre da utilizzare.
Ci sembra particolarmente interessante
confrontare le pietre (quasi completamente diverse) consigliate da Francesco
De Cesare, ben sei, con le quattro indicate dal Breyman, Riportiamo a questo
scopo uno schema con la successione
delle pietre
consigliate dai due autori:
DE CESARE: 1- Pietra arenaria o
pietra artefatta di scagliola e sabbia 2 - Pietra pomice 3- Lavagna 4
Pietra argillosa 5 Pietra di paragone (11) 6 Diaspro
BREYMAN: 1 - Pietra arenaria 2 -
Pietra cote 3 - Pietra cote più fine 4 - Pietra ematite
Come si può notare, le pietre
consigliate erano progressivamente più dure, si passava da pietre
costituite da elementi sabbiosi, quindi più abrasive, a pietre più
compatte di natura silicea.Il Breyman, in particolare, consiglia di stabilire
la successione provando a scalfire le pietre tra di loro, e di utilizzare
per ultima quella che non veniva scalfita dalle altre.
d)Intonaci a finto
marmo colorati in superficie Lo
stucco a finto marmo poteva, come già detto, essere colorato anche
in superficie con pigmenti da affresco sciolti nell'acqua di calce, oppure
con colori a olio. La prima indicazione trovata per tale coloritura è
riportata in un manoscritto anonimo del XVI secolo che prevedeva la coloritura
dello stucco, realizzato con calce e polvere di marmo o di travertino,
con colori a olio stesi su di una "inzuppatura" di biacca sciolta in acqua
di calce.Gli unici autori a riportare una indicazione simile sono nell'Ottocento
Giuseppe Musso e Giuseppe Copperi, che descrivono uno "stucco ad olio per
imitare il colore dei marmi". Per eseguire questo stucco si preparava la
superficie muraria applicando con una spatola di ferro due strati di malta
composta di gesso "vivo" e colla animale molto densa. Dopo l'applicazione
di questi due strati si raschiava la superficie con carta vetro e si copriva
con uno strato di colla liquida sulla quale, a più riprese,
si stendevano biacca e colori a olio misti con essenza di trementina.e)
Intonaco a "stucco lucido" La superficie dello stucco, sgrassata e levigata
per mezzo delle tecniche sopradescritte, poteva infine essere "lustrata",
oltre che con pietre e olio come per il finto marmo, anche a caldo o a
freddo, con soluzioni saponacee e cera ottenendo il cosiddetto "stucco
lucido". Già Leon Battista Alberti parla di un intonaco che diveniva
"lustro come specchio" se, una volta asciugato, veniva ricoperto con
un composto di cera, mastice (una
resina vegetale) e olio e che una volta unto in questo modo veniva scaldato
con braci per facilitarne l'assorbimento, e infine lucidato.In generale
le altre fonti descrivono due diverse soluzioni saponacee, suscettibili
di lucidatura, sia a caldo che a freddo.La prima, riportata da Francesco
De Cesare, era composta solo da acqua e sapone di Genova, da applicare
sullo "stucco semplice" (di gesso per l'interno e di polvere di pietra
bianca per l'esterno) non ancora completamente asciutto, e da comprimere
mediante ferri caldi.La seconda, descritta dal Breyman, Si componeva di
cera gialla (o bianca per lavori bianchi), sapone, e cremor di tartaro
(12) utilizzato probabilmente per facilitare lo scioglimento della cera.
La lucidatura, in questo secondo caso, avveniva a freddo, prima con una
pelle bianca sottile e successivamente
con la parte piatta della cazzuola.
NOTE:
1) Le radici di malva essiccate
e ridotte in polvere, contengono oltre ad amido, tannino e zucchero, il
25-30% di mucillagine. La mucillagine è una sostanza organica naturale
ad alto peso molecolare di aspetto simile alla gomma, dotata della caratteristica
di rigonfiarsi a contatto con líacqua. Miscelando tale polvere col gesso
si ottiene un notevole ritardo della "presa" e un sensibile indurimento.
T. Turco, Il gesso, Milano, Hoepli, 1996. <
2) Il tannino rallenta la presa
del gesso perché è una sostanza organica di peso molecolare
elevato che agisce come colloide protettore. Inoltre permette di ottenere,
insieme al ritardo della presa, un sensibile miglioramento delle resistenze
meccaniche dei manufatti, senza alterarne le caratteristiche o danneggiare
ed ostacolare i successivi trattamenti di finitura.<
3) M. Cordaro, M. Nimmo, L. Rissotto,
Stucchi, cap. III in D I M O S, parte I, modulo I, Corso sulla manutenzione
di dipinti murali mosaici stucchi, Roma 1978, p. 70. <
4)Ibid., p. 67 <
5) La colla di Fiandra o colla forte
era ottenuta dalla bollitura nellíacqua di ritagli di pelli, ossa e cartilagini
bovine. <
6) La colla di pesce era ottenuta
dalla cottura delle vesciche natatorie di quasi tutti i pesci senza squame.
<
7) Il caseinato di calcio è
ottenuto unendo caseina e calce spenta. Storicamente era realizzato impastanto
calce spenta e formaggio.<
8) Il tartaro di vino è un
sale acido di potassio che si forma allíinterno delle botti. Si veda anche
la nota 13. <
9) A proposito dellíattenta lisciatura
di questo particolare tipo di intonaco conosciuto anche con il nome di
mamorino e diffuso soprattutto nellíarea veneta, Alvise Cornaro afferma:
"[Ö] con il soradetto si fa di marmo pesto, et fatto polvere, et messo
nella calcina in luogo di sabbione, ma bisogna fregarlo ogni dì
una volta, et due, et tre, per quattro o sei dì continui [Ö]". Questo
passo fa parte del lacerto di un trattato di architettura citato anche
da Andrea Palladio (libro I, cap.
XXVIII),e andato perduto; si trova
in G. Fiocco, Alvise Cornaro il suo tempo le sue opere, Vicenza, Neri Pozza,
1965, p.159.<
10) G. Vasari, Le vite deí più
eccellenti architetti, pittori e scultori italiani, da Cimabue insino aí
tempi nostri. Torino,Einaudi, 1991, pp. 73-74. <
11) La pietra di paragone è
una varietà di diaspro nero, usato in oreficeria per riconoscere
il titolo dellíoro. <
12 ) Griselini, Dizionario delle
arti e deí mestieri, cit., tomo XVI, voce "Tartaro", pp. 257-258. Si veda
anche la nota 8.<
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